Un mese fa, leggendo un libro sulla guerra di Corea, ho scoperto casualmente l’esistenza dell’Unità 731 dell’esercito giapponese, che operò in Manciuria tra il 1935 e il 1945 conducendo esperimenti “scientifici” su esseri umani.
Chi, come me, conosceva solo le atrocità commesse dai medici nazisti nei lager, non potrà che rimanere profondamente sconvolto di fronte all’agghiacciante ferocia e alla mostruosa estensione delle pratiche per “finalità di ricerca” portate avanti dall’Unità 731 che si occupava principalmente di ricerca, sviluppo e sperimentazione di armi batteriologiche di massa.
Nel corso di questi esperimenti, i ricercatori infettarono centinaia di prigionieri con vari ceppi di peste bubbonica, colera, vaiolo, botulino e altre malattie. Selezionarono quindi i patogeni più mortiferi per realizzare armi batteriologiche, che vennero poi sperimentate su almeno dodici città cinesi. Aeroplani sparsero milioni di pulci portatrici di peste bubbonica, uccidendo decine di migliaia di persone. Infettarono pozzi, paludi e case con bacilli del tifo, facendo esplodere epidemie così violente e rapide da suscitare il loro entusiasmo. I “prodotti finiti” vennero poi forniti all’esercito giapponese, che usò antrace, colera, tifo, peste e altro sulla popolazione civile: alcuni ricercatori, dotati di vestiti protettivi, dopo il rilascio delle armi batteriologiche andavano ad esaminare con i loro occhi l’agonia delle loro vittime. Si stima che queste attività abbiano ucciso tra 200.000 e 580.000 civili cinesi.
Oltre a questa attività primaria, l’Unità si occupò però anche di sperimentare armi convenzionali: ad esempio, studiarono l’efficacia delle granate in funzione della distanza dalla cavia umana. Sperimentarono su persone anche lanciafiamme, baionette, coltelli, bombe chimiche ed esplosive.
In altri test, i soggetti vennero privati di cibo e acqua per determinare quanto ci mettevano a morire; venivano collocati in camere a bassa pressione finché i loro occhi non uscivano dalle orbite; erano usati per determinare la relazione tra temperatura, ustioni e sopravvivenza umana. Persone furono sottoposte a scosse elettriche, messe in centrifughe e fatte girare fino alla morte, trasfuse con sangue animale, esposte a dosi letali di raggi X, bruciate, sepolte vive.
Alcuni test non avevano alcuno scopo medico o militare, come ad esempio iniettare urina di cavallo nei reni dei prigionieri, o amputare gli arti e riattaccarli ad altri monconi del corpo. Vi risparmio i disumani dettagli sulla vivisezione umana, sugli studi sul congelamento e sulle malattie veneree, con persone obbligate sotto minaccia di morte ad avere rapporti sessuali per contagiarsi. Lo stupro era una pratica abituale, e le gravidanze venivano usate per “studiare” la resilienza a varie torture di madri e feti: a quanto se ne sa, nessuno dei molti bambini nati in prigionia è sopravvissuto. Si stima che almeno 10.000 persone siano state uccise in questi modi: tra essi molti cinesi e russi, ma anche prigionieri di guerra degli eserciti alleati. Per dare un’idea, è più del doppio delle stime delle vittime causate dei medici nazisti.
Non credo sia possibile nè utile fare una graduatoria delle atrocità, ma appare evidente che la gravità e la portata degli atti perpetrati dell’Unità 731 non siano inferiori a quelli perpetrati dai medici dei lager nazisti.
Eppure, a differenza di ciò che avvenne con i criminali nazisti, quasi nessuno dei responsabili di questi orrori venne condannato: anzi, non vennero neanche processati. Nonostante le loro identità fossero note, questi torturatori restarono liberi anche dopo la sconfitta del Giappone. Molti continuarono a lavorare come medici o raggiunsero posizioni elevate in ambito accademico, alcuni addirittura perpetrarono ulteriori esperimenti su pazienti ignari.
Rimasero liberi perchè, a guerra finita, Shirō Ishii (il capo dell’Unità 731) dopo essere stato arrestato propose agli americani un accordo: i dati dei risultati degli spaventosi esperimenti su umani in cambio dell’immunità per sè e per tutti i suoi sottoposti torturatori.
Alcuni microbiologi statunitensi, tra i quali il capo del programma per le armi batteriogiche USA, vennero incaricati di valutare l’offerta. Dal loro rapporto traspare l’entusiasmo per il fatto che i torturatori fossero disposti a consegnare informazioni scientifiche “assolutamente inestimabili”, che erano costate “molti milioni di dollari e anni di lavoro” e che “non avrebbero mai potuto essere ottenute negli Stati Uniti a causa degli scrupoli associati agli esperimenti su umani”, sottolineando che “le informazioni potevano essere ottenute ad un prezzo che era una miseria in confronto al reale costo di quegli studi”. Il generale Mac Arthur diede il suo benestare all’accordo, i dati sugli “esperimenti” vennero trasmesse agli USA e nè Ishii nè nessun altro suo sottoposto fu disturbato dai tribunali di guerra alleati.
L’Unione Sovietica, dal canto suo, catturò, processò e condannò dodici figure di primo piano dell’Unità 731 ai campi di lavoro in Siberia per un massimo di 25 anni, ma entro il 1956 vennero liberati tutti e rimpatriati in Giappone. Anche in questo caso, è più che probabile ci sia stato un accordo per informazioni date in cambio di clemenza.
E’ difficile a credersi, ma a tutt’oggi il Giappone, nonostante l’indiscutibile mole di prove emersa grazie al lavoro di alcuni storici, non mai ha riconosciuto ufficialmente i crimini perpetrati dall’Unità 731. I libri di scuola giapponesi normalmente parlano dell’esistenza di testimonianze sui crimini compiuti ma senza andare nel dettaglio delle accuse. Ancora oggi i fatti sono noti solo attraverso le testimonianze spontanee di vittime e aguzzini: in assenza di un riconoscimento ufficiale, nessun risarcimento è mai stato dato alle vittime e/o ai loro eredi che hanno intentato causa.
Inutile notare che, al di fuori del Giappone, il blocco occidentale pare ancor meno interessato a diffondere consapevolezza e memoria di queste atrocità, così simili a quelle perpetrate dai nazisti, ma dal finale così differente.
Ci hanno insegnato che la memoria serve ad evitare che il passato si ripeta. E’ assolutamente vero: proprio per questo sarebbe più che opportuno ricordare non solo gli orribili crimini nazifascisti, ma anche i crimini perpetrati dall’Unità 731 e ovviamente anche le agghiaccianti e disumane complicità da parte delle superpotenze “democratiche” e dei loro scienziati.
Invece, una giornata della memoria sulle atrocità dell’Unità 731 e sull’impunità assoluta concessa non esiste. Di più: di questi fatti, e di altri similari in cui il ruolo delle democrazie occidentali è tutt’altro che edificante, si preferisce non parlare. Perché?
Il caso nazista è perfetto per le menti semplici, quelle che hanno bisogno di dividere il mondo in buoni (noi) e cattivi (gli altri), ma è perfetto anche per i governi “democratici” che preferiscono di gran lunga legittimarsi strombazzando il loro ruolo di giustizieri liberatori (non per niente Benigni per vincere l’Oscar fa liberare Auschwitz dagli americani..) piuttosto che lasciare che emerga tutta la loro spaventosa e perdurante amoralità. Se ci pensate, puntare i riflettori solo su una parte della scena, attirando tutta l’attenzione su di essa, serve anche a rendere invisibile tutto il resto che, per contrasto, rimane ancora più al buio.
Intendiamoci: ricordare la barbarie nazista è cosa buona e giusta sempre. Però, quando si partecipa al grande rito collettivo delle varie giornate della memoria o del ricordo di Stato, magari proviamo a riflettere con la nostra testa. Pensiamo a quanti crimini commessi nel passato (anche recente) da noi e dai nostri alleati vengono sottaciuti dal potere e dalla sua corte di intellettuali di supporto, per non sfatare il mito dello stato “portatore di giustizia” e quindi legittimato ad usare la violenza.
Pensiamo anche a quanto sia pericoloso, questo mito: come sia stato usato, troppe volte per poterle contare, per giustificare violenze e guerre perpetrate a nome di tutti, ma nell’interesse esclusivo di chi, di potere, ne ha molto più degli altri.
Se veramente crediamo che la memoria serva a non ricadere negli errori del passato, allora diffondere consapevolezza sulle colpe dei nostri governi “democratici” è l’indispensabile complemento alla memoria dei crimini delle dittature. In assenza di tale ampia consapevolezza, la memoria “selettiva” finisce per diventare agli occhi di molti semplicemente un mantra ipocrita e funzionale alla difesa dello status quo, con tutti gli orridi frutti (come il negazionismo, o il semplice ma esiziale disinteresse) che ne conseguono.
PS: mi hanno chiesto delle referenze bibliografiche sull’unità 731: il materiale è abbondante, mi limito a segnalare le fonti indicate su Wikipedia alla voce References e Further Reading